Fitzcarraldo

Siamo in Amazzonia, a cavallo fra ’800 e ’900. Brian Sweeny Fitzgerald (che si fa chiamare “Fitzcarraldo“ perché i nativi del luogo non riescono a pronunciare il suo cognome) ha un grande sogno: costruire un grande Teatro dell’Opera a Iquitos, piccolo villaggio amazzonico isolato dal resto del mondo, per farvi esibire i più grandi nomi della lirica, uno su tutti il famoso cantante Enrico Caruso, che ammira al teatro dell’opera di Manaus. Fitz ha però altri progetti in sospeso che in qualche modo fanno di lui lo zimbello dei grandi investitori dell’Amazzonia, progetti come quello di una ferrovia transandina e quello di una fabbrica di ghiaccio che già gestisce; tuttavia, la sua amante lo convince, per finanziare l’idea del teatro, a dedicarsi alla ben più redditizia raccolta del caucciù. Il fiume dove si trovano più alberi di hevea brasiliensis da cui si ricava è l’Ucayali, spartito tra i grandi produttori di caucciù, tra cui Don Aquilino, che mostra a Fitz i metodi di produzione. Informato di una zona ricchissima di alberi liberi nel corso superiore del fiume, ma pericolosa per la confluenza con il Rio delle Amazzoni e per le violentissime rapide del Pongo das Mortes, Fitz decide ugualmente di attraversare in un punto dove i fiumi quasi si toccano. Fitzcarraldo concepisce quindi l’idea di raggiungere la zona passando dall’altro fiume, con una nave che egli pianifica di trascinare via terra oltre il poggio che lo divide dall’Ucayali. La sua fidanzata finanzia quindi l’acquisto dell’imbarcazione, la Molly-Aida, un vecchio scafo nella necessità di numerosi rattoppi; tuttavia, tirato a lucido il natante e una volta ingaggiato l’equipaggio, il viaggio inizia. Strada facendo il visionario sognatore non esita a procurarsi il materiale per l’impresa “saccheggiando“ la sua stessa ferrovia asportandone i pochissimi binari già posati, il tutto sotto lo sguardo interdetto del capostazione, unico dipendente della strada ferrata non raggiunto dal licenziamento e che non riceve paga da sei anni ma che, ligio al dovere, rivernicia annualmente una biglietteria di prima classe, e la cui uniche occupazioni sono rivendere a poco a poco alcuni pezzi della inutile locomotiva e togliere le radici delle piante che da tempo la infestano. Non appena la nave giunge sul Pachitea, tra i marinai serpeggia il malcontento, perché il fiume è abitato dai feroci indios Hivaros. Proprio per questo l’equipaggio un giorno abbandona la nave, lasciando Fitz, il capitano, il meccanico Cholo e il cuoco alcolizzato. Quando i quattro decidono di tornare indietro, gli indios arrivano e aiutano Fitz nel suo progetto credendo che, secondo una leggenda, quest’ultimo sia il loro dio e che li condurrà in paradiso, in quanto uomo bianco su una barca bianca. Dopo un tentativo fallito, egli riesce a portare la nave oltre il monte e poi sull’altro fiume. Gli indios però dopo una notte di festa sciolgono gli ormeggi: nessun mortale avrebbe potuto sopravvivere alle rapide, secondo le loro credenze. Il capo tribù con alcuni nativi (quasi per mettere alla prova la divinità di Fitz e dei suoi ormai pochi compagni rimasti) resta a bordo della nave la quale percorre le rapide, e per miracolo riesce a superarle, pur rimanendo seriamente danneggiata. Tornato a Iquitos sull’imbarcazione che galleggia a malapena, Fitzcarraldo rivende a malincuore la nave al precedente proprietario, per il fallimento del progetto. Con il ricavato, Fitz manda a Manaus il comandante della nave, col compito di procurare un frac e una poltrona da teatro (aveva promesso al suo maiale da compagnia un posto d’onore), nonché per ingaggiare un’orchestra con tanto di scenografia, per una suggestiva esecuzione sulla barca prima della sua cessione, realizzando comunque il sogno di portare l’opera a Iquitos.
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